Steven
Wilson – The Raven That Refused to Sing
Tempo fa l’amatissimo frontman dei Porcupine Tree affermò
che il metal era per lui la musica del futuro e che gruppi come Opeth e Meshuggah
erano tra i suoi preferiti.
Apprezzo l’apertura mentale di Steven Wilson, dall’altra
parte devo dire che l’amico dovrebbe ascoltarsi gli ultimi dischi dei due
giganti svedesi ormai collassati per capire che ormai quelli di futuro ne
vedono meno di un libro di grammatica.
Ad ogni modo, con la solita sincerità che mi
contraddistingue e che tanto non piace, devo dire che a me i Porcupine Tree non
mi sono mai piaciuti, a parte “Trains” che ormai conosce pure la più scosciata
tronista di Uomini e Donne, percui immaginate un po’ come mi sono avvicinato a
questo The Raven That Refused To Sing...
A parte che odio profondamente tutti i titoli che superino
le massimo tre parole, questo disco già mi dovrebbe aver stufato per quanto è
lungo il titolo, senza contare il nome completo sarebbe The Raven That
Refused to Sing (And Other Stories).
Porco Zueg...
Vabbè, non bisogna fermarsi alle apparenze, perchè anche se
non gradisco i Porcupine Tree, Steven Wilson è comunque un artista che va
rispettato, perciò lanciamoci nell’ascolto di questa sua nuova creatura prima
di tapparci le orecchie e guardare al cielo come quando si è a tavola tra le
zie e le nonne che si gridano addosso.
Il disco si apre con una tracciona prog\fusion chiamata “Luminol”.
Come aprire meglio un disco prog? C’è veramente poco da dire, se vi piace la
musica questa traccia non può non piacervi e se non vi piace, bè so che cercano
volontari per cambiare i pannolini ai teneri e famelici cuccioli di Komodo. Basso
straripante e batteria di classe con quell’alieno di Marco Minneman dietro le
pelli, la chitarra che va tra le melodie energetiche del funk\fusion a quelle
più melanconiche... Poi parte la voce e il pezzo prende tutta un’altra piega,
calma e pace interiore, grande atmosfera e assolo di piano di gran qualità che
porta fino al crescendo finale con il fantastico organo hammond tanto amato da
Wilson. Il tutto si chiude come è iniziato sfoggiando così le incredibili doti
compositive dell’artista inglese, senza contare l’assolo di chitarra di un
certo tizio barbuto e magro chiamato Guthrie Govan... Spettacolare, un pezzo
davvero fantastico.
Si passa alla più diretta “Drive Home”, un po’ il singolone
del CD che comunque non manca di classe, davvero un toccasana per tutti gli
amanti della buona musica, tra atmosfere alla Opeth di Damnation e la
voce di Wilson che rilassa, davvero un viaggio verso casa. Punto in più sempre
al buon Govan che si prodiga in un assolo stupendo che conclude la traccia,
sfoggiando tutto il suo gusto in faccia a noi poveri merli che proviamo a
dilettarci con il nobile istrumento. Il prog-rock più classico viene invece
ripreso con “The Holy Drinker”, dove si potranno gustare ottimi passaggi di
strumenti a fiato, organo e ovviamente il ritorno di una strepitosa sezione
ritmica in grado di fondersi perfettamente con l’atmosfera creata dal pezzo che
per certi versi ricorda alcune cose fatte da Herbie Hancock nella fase più
acida, ma d’altronde è dura non richiamare i mostri sacri quando si vuole produrre
musica del genere. Con “The Pin Drop” invece si sprigiona energia celestiale con
cori e un arpeggio di chitarra che fa da main riff al pezzo, attorno al quale
viene costruito tutto il crescendo di quest’altro stupendo episodio del disco.
La suite
del CD “The Watchmaker” è invece il pezzo che ho apprezzato di meno,
probabilmente perchè è stato strutturato male: parte con una narrativa più
rilassata con un arpeggio che poi richiama un bel tappeto di tastiera e parti
vocali angeliche, per poi passare al crescendo che si alterna tra assoli di
flauto e chitarra, tra modulazioni e tecnicismi, dove di nuovo Govan fa sfoggio
di tutto quello che può e non può fare, perchè quel tizio sa fare anche le cose
che deve ancora imparare. Poi cosa succede? Si ritorna a una parte più
tranquilla che va su una parte di vocalizzi un po’ caotici che staccano su una
roba alla Chick Corea dove basso e chitarra fanno un po’ il buono e cattivo
tempo tentando di costruire un crescendo non troppo convincente, poi c’è un breve giro di accordi quasi metal lasciato lì così senza batteria e niente, il tutto per arrivare a una parte
confusa di chitarre distorte, organo e voce....
Mah... Non
proprio un pezzo convincente... Interessante fino a metà, “The Watchmaker”
diventa poi un mischione di tutto ciò che evidentemente piace al buon Steven
Wilson, purtroppo però il pezzo perde coesione e diventa il classico frullato
prog rock da smanettoni.
Il disco si chiude con la title track che richiama le
atmosfere dei Radiohead e seppur parecchio depressiva, tira su il morale dopo
il macello fatto da “The Watchmaker”. Il pezzo si costruisce su un ottimo piano
e tastiere, con Wilson che si esprime al massimo e che ci conduce all’ottimo
finale dove prende parte anche la batteria. Il pezzo crea davvero una narrativa
stupenda, se questo corvo spaurito non voleva cantare alla fine del pezzo di
sicuro lo si può immaginare spiccare il volo verso altri orizzonti. Davvero ben
fatto.
Per quanto riguarda la produzione posso dire solo una cosa:
impeccabile. Alan Parsons (si proprio lui...) è riuscito a fare dei gran suoni
per ogni strumento e a rendere il tutto moderno, ma non artificiale,
richiamando anche alcuni suoni vintage che il genere richiede. L’ottimo
missaggio si aggiunge ovviamente all’estrema bravura dei musicisti che penso
siano tra i migliori turnisti del momento e le composizioni davvero impeccabili
a parte la già citata “The Watchmaker” che un po’ spezza l’ascolto.
Probabilmente questo è il lavoro più riuscito di Steven
Wilson come musicista, un disco sul quale tornerete per farvi trasportare dalle
fantastiche melodie e dalle atmosfere oniriche. Un ottimo disco che consiglio a
tutti, metallari e non.
Se non vi piace... Bè, alla mia macchina serve un paraurti.
Voto:
8,5 più un cucciolo di Komodo
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